La Parola a Liguori ✍️
8 min readJan 6, 2021

IL CINEMA SECONDO LIGUORI

RECENSIONE

RAVANELLO PALLIDO

🌟🌟🌟

Regia di Gianni Costantino.

Con Luciana Littizzetto, Massimo Venturiello, Gianfranco Barra, Margherita Antonelli, Renato Scarpa.

Produzione: Italia, 2001.

Link al film: https://movieplayer.it/film/ravanello-pallido_21276/streaming/

Poco conosciuta – e per certi versi ingiustamente dimenticata – è la commedia italiana “Ravanello pallido”, diretta nel 2001 da Gianni Costantino. Con tutti i suoi difetti, ma anche i suoi pregi, questo dilettante qui all’esordio (come la protagonista qui nel suo primo film) c’aveva visto giusto, non senza una certa visionarietà di base, sulla falsità e l’ipocrisia del cosiddetto “terrorismo mediatico televisivo” (oggi proprio anche del web) a vent’anni di distanza.

La verità è che già allora la televisione italiana stava percorrendo allegramente la parabola del degrado, di cui oggi non vediamo altro che la constatazione di un punto di non ritorno, un’amarezza, dunque, ben profonda e diversa da quella percepita sul fondo del film di Costantino. Va anche detto, tuttavia, che al di là dei tempi diversi e non certo mal ridotti come oggi da questo punto di vista, all’epoca la televisione italiana era già un autentico teatrino di barzellette, finzioni, corruzioni, ipocrisie, volgarità e falsità, come s’evince pure dalla satira qui proposta, ma lo schifo era già allora ben maggiore di quanto “Ravanello pallido” voglia mostrare. Ecco che, paradossalmente, si denuncia un mondo di compromessi senza rinunciarvi, piegando così la denuncia in certe occasioni in nome di ripiegamenti barzellettistici divertenti e non, che finiscono non per appiattire la satira, ma comunque per smorzarla un po’ troppo quando invece sarebbe stato necessario il contrario, vista la pretesa efficace, ma ardua. Tanto difficile che il regista sembra costringere la denuncia a sparare meno colpi del dovuto, virando comunque verso un tocco personale che, a modo suo, rende in ogni caso la satira “suggestiva” nel suo tendere, di tanto in tanto, allo stucchevole.

Ulteriore paradosso è costituito dalla stessa attrice protagonista, Luciana Littizzetto, che proprio in quegli anni, grazie al passaggio dalla televisione al grande schermo, iniziava a farsi notare.

Senza di lei “Ravanello pallido” non sarebbe la stessa cosa, anche fisicamente parlando, visto che il colore eccentrico cui si fa riferimento nel titolo metaforico è impiegato come tintura per i suoi capelli, consentendole quella svolta personale che s’inserisce nel discorso collettivo del rapporto normalità-anormalità che passa per la realtà e la televisione.

Ma senza la Littizzetto, forse, questo film avrebbe avuto qualche difetto in meno, visto che, per quanto la comica diverta (ma non solo lei) di tanto in tanto (alcune gag, non solo sue, sono comunque banali o non riuscite) ed abbia centrato bene il personaggio, non è raro che quest’ultimo perda di credibilità in alcune situazioni ed acquisti un pizzico di monotonia caricaturale da pilota automatico. Ad esempio, per il primo concetto ciò si ravvisa quando la sua reazione è innaturale dopo aver sorpreso in adulterio il suo compagno con il migliore amico di lei (e quindi persino doppio tradimento), tant’è che il pianto finto lascia subito spazio alla risata che è l’unica cosa, tra le due, che le riesce.

Per il secondo, invece, è un problema da non imputare solo a lei, ma ad un ritmo filmico che, per quanto incredibilmente mai perso dall’inizio alla fine, sebbene due o tre bruschi di montaggio ed una o due situazioni di trama troppo facili e poco realistiche, spesso accelera, con dialoghi e battute che a volte soccombono allo stile comico della Littizzetto e ad una spesso eccessiva “presenza narrativa”, dimenticandosi Costantino che non la sta riprendendo in uno spettacolo cabarettistico, ma su un set, a volte confondono, come all’inizio e in un finale ciclico, per questo ma anche per l’inquadratura della stessa strada iniziale con bus, rivelando la natura del racconto in flashback.

Tuttavia, dopo la morale pungente ma non mordace (come il film stesso) dell’invito littizzettiano ad imparare dalla realtà, dalla normalità per una svolta, un cambiamento, una rivoluzione personale, si torna alla confusione dell’intro, ma stavolta sul bus, e le parole corrono frettolosamente, complici così d’un esito riuscito a metà visto anche un repentino quanto un po’ irrealistico ripensamento da parte di un agente senza scrupoli che ora s’è persino innamorato di lei, finendo anzi per diventare suo schiavo nel gioco troppo immediato e poco gustato del rovescio della medaglia e dei ruoli, dato che, concretamente e metaforicamente, prima era lei a preparargli le spremute.

Per fortuna, nonostante la confusione iniziale e finale s’evince chiaramente che Venturiello (il suo agente) sia il miglior interprete indiscusso della pellicola, ritratto perfetto e realistico con sprazzi caricaturali contenuti (al contrario avviene per la Littizzetto) d’una brutta pedina ingranaggio d’un sistema ben esemplificato nella sequenza delle pecore, quando lui deve spiegare alla Littizzetto l’ultima trovata mediatica e commerciale per abbindolare mercato e pubblico, e difatti son pecore le protagoniste della scena! Tutti si chiedono chi sia Gala, fantomatica vip che esiste solo nel cuore degli italiani e nei meandri dei giornali, perché tutti credono al mistero, alla menzogna, ed è questo che conta, che incrementa visibilità, che va avanti e fa notizia: benvenuti nel mondo della televisione, e più in generale dei mass media, dove Gala c’è sempre, anche se non esiste, e ne sa qualcosa anche Pamela Prati a proposito di Caltagirone. Ma tutto questo si estende anche alle fake news, alle dichiarazioni rilasciate per creare scandali, discussioni, applausi e audience, ma magari poco vere, perché di fatto poco sentite o bugiarde. Insomma, tutto fa brodo in quest’ovile, e se ne rende conto qui anche Gemma quando poi assume, secondo un’ennesima trovata del suo datore di lavoro che così diventa suo agente, l’identità di Gala, la “diva normale”. Ha successo perché piace alla “gente normale”, alle persone che la conoscono o che in lei riconoscono la vita quotidiana, ma dev’essere particolare per finire dietro la telecamera: look stravagante, capelli rosa, l’essere figlia d’un colpo di scena per lei e per tutti visto che era ben altra l’aspettativa della natura di Gala.

Dunque, tanti i limiti impostile, i magheggi che ella stessa scopre a proposito del suo agente che la sta solo sfruttando economicamente e, come tanti altri che la chiamano in trasmissione, strumentalizzandola.

Ecco che è chiaro il messaggio: la televisione non solo tende a fingere la realtà deformandola, ma anche a prendersene gioco con cattiveria, buttandola via quando poi non serve più. Sanremo non glielo vogliono far condurre alla povera Gemma/Gala che ha espresso solo un desiderio (incredibilmente la Littizzetto condurrà davvero il Festival della Canzone Italiana diversi anni dopo), che però giornali e tv contribuiscono ad amplificare come reale in termini di concretizzazione, solo illudendo lei e chi crede ad una dichiarazione come fosse la verità, per poi covare dietro ogni possibile risentimento verso di lei e l’attuazione ritenuta assurda di questo suo auspicio. Niente è come sembra, insomma, e le cose sono andate solo peggiorando visto lo sviluppo di tanti altri mass media dopo quello televisivo. Sarà anche banale ma è una verità, seppur triste, quella espressa da un direttore televisivo nel film a proposito della rivoluzione, cioè che questo cambiamento non deve attuarlo lui. In effetti è la legge del mercato che manda avanti il mercato, e lo stesso vale per la televisione, ma se solo fossero più furbi tanto gli acquirenti quanto i fruitori, e magari più abili ed accorti nella ricezione e nell’osservazione di fatti e cose, allora niente di falso apparirebbe così tanto credibile, e davvero la tv subirebbe quei colpi in più che al regista non è piaciuto sparare.

Noi comunque quest’amarezza l’avvertiamo, anche se sullo sfondo, a maggior ragione a vent’anni di distanza, poiché oggi più che mai il ravanello mediatico è diventato squallido che persino un vero scandalo non fa più paura di una parolina o di una foto estrapolate solo per crearci su notizia demistificante: e quindi merda su merda.

APPROFONDIMENTO DI RECENSIONE

Non mancano allegorie visive, come manifesti su un comunismo sempre più gridato per moda dai mass, ma difatti pienamente calpestato da un mondo sempre più finto e capitalistico.

Inoltre, oggetti più grandi del dovuto come un profumo gigantesco mettono in piccolo in evidenza la lente d’ingrandimento deformante della realtà adoperata dai mass.

Calzante la denuncia verso la conclusione anche del mondo della pubblicità, che spesso s’intreccia con tv e gli altri mass media.

Il regista punge, ma non morde, attraverso la Littizzetto il miserabile tentativo dei pubblicitari di distrarre il pubblico, apparentemente inducendolo al sogno lontano dalla realtà, ma in realtà illudendolo. L’ironia verbale e la verve comica della Littizzetto propongono di esagerare semmai sulla realtà per renderla accattivante e catturare l’attenzione del prodotto, ma senza deformare un bel niente: ecco, i mass media e la pubblicità dovrebbero puntare forse su questo per rinnovarsi, con più onestà ed aderenza ad una vera, reale comunicazione, senza magari rinunciare alla finzione, ma equilibrandola con le logiche della “gente normale”, e non del mercato. Perché, in fondo, siamo tutti normali, o quasi, come asserisce qui Gemma/Gala.

Comunque, al di là della legge, anche le pedine potrebbero fare meno le pedine e tirar fuori un po’ più di coraggio, lo stesso che è mancato al regista per incidere quel colpo di grazia che avrebbe reso la commedia più incisiva di quanto non lo sia su certi punti, specie vista oggi: e la cosa sorprende positivamente.

E al di là di questi discorsi la rivoluzione Gemma/Gala la fa sul serio, lei che è parte del quotidiano, della realtà, della “gente normale”, coniugando i toni e lo stile all’epoca innovativi della comicità littizzettiana al coraggio di essere se stessa in un mondo di balle.

Ecco la svolta, il cambiamento: deve partire dalla normalità, quindi dalla verità, dalla realtà, da noi stessi, e poi forse può migliorare anche la televisione, che inevitabilmente è finzione, ma se la realtà vi entra con prepotenza e tenacia, senza timori, ipocrisie e politicamente corretto vari, allora può vincere sulla menzogna ed impedirle di farsi manipolare. In effetti e fortunatamente, la tv e il web oggi non sono solo degrado, per cui la morale di “Ravanello pallido” non è vana ed utopica, nonostante la sempre maggiore rarità d’ascolto, quella bella parola connessa a uno dei cinque sensi che è il meno usato attualmente e nella sua definitiva concretezza.

Le musiche che ricordano Rita Pavone (non tutte, ma tutte ugualmente belle) sono piacevoli e funzionali in tal senso (Rita Pavone cantava la donna e i suoi spazi, le sue conquiste) e il cast tutto sommato funziona, se si eccettuano la Littizzetto per aspetti già evidenziati e il suo amico omosessuale un po’ troppo caricato macchiettisticamente nell’espressione della sua naturale effeminatezza, a volte innaturale e monotona.

Barra e Scarpa fanno la loro bella figura come caratteristi d’un cinema comico e drammatico che in Italia non tornerà più, e contribuiscono, insieme agli altri attori, a caratterizzare così bene i personaggi che ognuno fa la sua parte, chi più chi meno, per rendere “Ravanello pallido” una commedia di “denuncia iconica e un po’ naïf”, mettendo un freno a tanta ipocrisia.

A proposito del ritmo narrativo a volte troppo frenetico, a volte serve in questo senso, perché riproduce chiaramente le logiche usa e getta del mass media televisivo, generando quel fastidio che quando guardiamo la tv magari non percepiamo, forse perché non ci interroghiamo abbastanza sul suo retro segreto e non la guardiamo così a fondo: Gianni Costantino invita a farlo (con la consapevolezza che quella strada che sembra infinita nel finale è ancora lunga), riflettendo con una leggerezza che non vuol dire superficialità, ma preferendo premere più sul tasto del godibile anziché su quello dell’intelligibile, pur trattandosi d’un godibile intelligente, ma che è sempre un godibile.

Con i suoi difetti e pregi.

VALUTAZIONE: Distinto 🌟🌟🌟

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